di Virna Bottarelli |
Lo scorso giugno è approdato al Congresso americano il disegno di legge Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors for America, abbreviato in Chips for America Act. Il provvedimento, sostenuto sia da Repubblicani che da Democratici, prevede che nei prossimi 5-10 anni decine di miliardi di dollari siano destinati al settore della produzione di semiconduttori, sotto forma di incentivi alle imprese e alla ricerca. L’obiettivo è rinforzare e sostenere la leadership americana nella tecnologia dei chip, comparto considerato essenziale per l’economia e per la sicurezza nazionale.
Commentando positivamente il disegno di legge, Keith Jackson, presidente, Ceo e direttore di ON Semiconductor e membro del Consiglio direttivo della Semiconductor Industry Association, ha detto: “I semiconduttori sono stati inventati in America e le aziende statunitensi sono ancora oggi leader mondiali nella tecnologia dei chip, ma in seguito a notevoli investimenti governativi da parte dei concorrenti su scala mondiale, oggi gli Usa rappresentano solo il 12% della capacità di produzione globale di semiconduttori. Il Chips for America Act aiuterebbe il nostro Paese a investire nella produzione e nella ricerca di semiconduttori e a rimanere il leader mondiale in questa tecnologia”.
Perché i semiconduttori Usa hanno bisogno di incentivi
Con i semiconduttori che rappresentano la quinta più grande categoria di prodotti da esportazione, il settore della produzione di chip negli Usa è comunque in una buona posizione. Ci sono però trend che potrebbero in futuro minacciare questa leadership mondiale: in particolare, in altri Paesi sono già stati messi in campo importanti incentivi per il settore e gli Stati Uniti rischiano di essere in ritardo nella competizione globale. Il Chips for America Act stanzia 10 miliardi di dollari per un nuovo programma di sovvenzioni federali volto a incentivare nuovi impianti di produzione di semiconduttori e stabilisce un credito d’imposta sugli investimenti per l’acquisto di nuove apparecchiature e strutture. Le società americane di progettazione e produzione di semiconduttori investono circa un quinto delle loro entrate in ricerca e sviluppo, quasi 40 miliardi di dollari nel 2019: si tratta del secondo più alto tasso di investimenti in ricerca tra i vari settori industriali che, però, solo in minima parte è finanziato dal Governo federale. Altri Governi nazionali, invece, negli anni hanno aumentato i loro investimenti nella ricerca. Tra questi primeggia la Cina, che sta investendo massicciamente nella Semiconductor Manufacturing International Corporation, con sede a Shanghai, e ha lanciato la sua roadmap tecnologica “Made in China 2025”. Proprio il dominio dell’industria globale dei chip è tra i numerosi obiettivi high-tech del gigante asiatico e negli Stati Uniti si attende di vedere se, anche in questo comparto, i cinesi sapranno replicare i successi ottenuti nell’Intelligenza Artificiale e nel settore aerospaziale.
Non è più tempo di globalizzazione
In base al nuovo provvedimento, investimenti federali significativi dovrebbero riguardare il Dipartimento della Difesa, la National Science Foundation e il Dipartimento dell’Energia. Inoltre, dovrebbe essere istituito un National Semiconductor Technology Center per la ricerca e la prototipazione di chip e il packaging avanzato dei semiconduttori. “Gli Stati Uniti devono mettersi in gioco e diventare un luogo più competitivo per produrre questa tecnologia così strategicamente importante”, ha affermato John Neuffer, Presidente e Ceo della Semiconductor Industry Association. Come riportano però i giornalisti George Leopold e Junko Yoshida di Aspencore, ci sono anche altri punti di vista. Uno è quello di Dan Hutcheson, Ceo di Vlsi Research, che pone alcune questioni di fondo: il disegno di legge offre fondi sostanziali? Il Governo degli Stati Uniti si atterrà a questa nuova politica industriale a lungo termine? E, ancora, perché dopo decenni di spinta alla globalizzazione, Governo e industria americani stanno tornando sui loro passi? Hutcheson crede che sia iniziata un’era in cui i Paesi tendono a isolarsi, perché la loro attenzione si è spostata dall’economia globale alle preoccupazioni per la sicurezza nazionale. “È una tendenza che non vedevamo dalla metà degli anni Ottanta”, ha detto l’analista, che ha ricordato come l’industria dei chip si sia globalizzata negli ultimi 50 anni perché diverse regioni del mondo hanno mostrato ciascuna una propria area di eccellenza. Dal Giappone, ad esempio, arrivavano i materiali migliori al mondo, così come erano gli olandesi di Asml a fornire gli strumenti Euv più avanzati. Oggi, invece, sembra prendere piede una tendenza inversa, sulla scia della guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti e della perdita di competitività della stessa Cina in termini di costi, soprattutto per quanto riguarda le produzioni di fascia alta. Leopold e Yoshida hanno interpellato anche James Lewis, del Center for Strategic and International Studies, che ha evidenziato come la leadership americana sia intimorita dagli enormi investimenti cinesi e come la crescente abilità tecnologica e la disponibilità finanziaria della Cina rappresentino quindi una minaccia esterna, che i politici non esitano a giocare come carta vincente per imporre nuovi provvedimenti che stanzino molto più denaro rispetto a quanto facessero in passato. Un altro aspetto evidenziato da Lewis riguarda la perdita dell’accesso al mercato cinese tramite controlli più rigorosi sulle esportazioni, che per i fornitori di apparecchiature IC nordamericane potrebbe essere uno svantaggio e ridurrebbe la loro capacità di investire in ricerca e sviluppo, inducendoli a chiedere incentivi fiscali per sostenere le loro spese: in questo scenario il Chips Act sarebbe la risposta perfetta. Dopo decenni di outsourcing, i legislatori intendono ripristinare quindi la produzione dei chip in casa propria e ricostruire le capacità dei fab: vedremo se a giovare di queste politiche saranno i principali stabilimenti americani come GlobalFoundries e SkyWater.
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