di Alan Friedman |
L’industria dei semiconduttori non finisce solitamente sulle prime pagine dei quotidiani, ma negli ultimi tempi la scarsità dell’offerta di chip a livello globale, a cui si unisce la battaglia per il controllo delle capacità produttive, hanno inasprito la rivalità che contrappone, con sempre maggior virulenza, America e Cina, mentre l’Europa, purtroppo, resta ancora al palo.
Il presidente Joe Biden si è attivato per aumentare la capacità produttiva americana, mentre si incoraggiano giganti asiatici del calibro di Samsung a trasferire parte della loro produzione dalla Corea del Sud in posti come l’Arizona. L’approccio di Biden è di tipo muscolare, per quanto sia espresso in termini più diplomatici rispetto al suo predecessore.
Un case study sull’impatto del Covid
Ma cos’è successo? L’attuale penuria globale di semiconduttori è un case study dell’impatto che il Covid ha avuto sulle catene di approvvigionamento e sui trend della produzione e dei livelli di occupazione.
I circuiti integrati, che utilizzano il silicio come materiale semiconduttore, sono sempre più fondamentali, ma i lockdown dovuti al Covid-19 nel 2020 hanno provocato una penuria globale.
Cosa che ha sconvolto le catene di approvvigionamento globali e la capacità produttiva di molte industrie. In particolar modo, il settore dell’automotive: le più grandi aziende del pianeta, tra le quali Ford, General Motors e Volkswagen, non sono state in grado di produrre le loro vetture a causa di questa improvvista scarsità. Durante il lockdown, l’anno scorso, hanno tagliato i loro ordini di chip, di solito consegnati e gestiti all’interno di una filiera organizzata secondo la filosofia del just-in-time, e poi non hanno saputo prevedere quanto sarebbe stato rapido il rimbalzo della domanda alla fine del 2020.
I produttori di chip, nel frattempo, spostavano la produzione verso segmenti per loro più convenienti: laptop, elettronica di consumo, data center, dove la domanda è cresciuta in modo impetuoso durante la pandemia. Risultato: le aziende hanno riorganizzato la produzione e la destinazione dei chip, e questo trend è destinato a perdurare nell’era del 5G, dell’intelligenza artificiale e dell’internet delle cose. Attualmente, ogni singolo veicolo elettrico che viene assemblato contiene circuiti integrati per un valore totale pari a 800 dollari. L’industria nel suo complesso spende 40 miliardi di dollari l’anno in microchip. Ma Apple da sola consuma più chip di silicio di tutta l’industria dell’auto. La domanda di semiconduttori è dunque aumentata in conseguenza del Covid: la nuova rivoluzione digitale innescata dalla pandemia ha spronato la crescita.
La geopolitica dei semiconduttori
Oggi quattro Paesi asiatici producono all’incirca il 75% dei semiconduttori del pianeta: Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Taiwan, in particolare, è la più grande produttrice di semiconduttori del mondo, con il colosso Tsmc (la fonderia Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) che detiene una quota di mercato stimata intorno al 51%. E sebbene Taiwan sia indipendente dalla Cina, Washington nutre forti preoccupazioni sull’entità dei capitali cinesi investiti nell’isola, e sugli effetti che un eventuale peggioramento dei rapporti tra le due superpotenze potrebbe avere sulla capacità di Tsmc di fornire chip alle aziende americane, con un occhio di riguardo a quelle che producono caccia e aerei per conto del Pentagono.
È per questo che molti analisti paragonano la competizione per il controllo della produzione globale di semiconduttori alla corsa allo spazio. Gli Stati Uniti oggi producono solo il 12% dei chip venduti a livello mondiale. Il vantaggio competitivo americano nel settore è di tipo ingegneristico, non certo manifatturiero. La Cina nel frattempo si è prefissata l’obiettivo di arrivare a una posizione dominante nella produzione di semiconduttori entro il 2025. Un target che probabilmente non raggiungerà.
La risposta di Biden alla carenza di chip
La risposta di Joe Biden allo shortage di semiconduttori e alle richieste di aiuto lanciate dall’industria americana è stata rapida e decisa. Mentre Trump faceva leva sulla minaccia costante di nuovi dazi punitivi ai danni della Cina, annunciandoli via tweet, Biden preferisce una diplomazia più tradizionale e una politica industriale improntata a una netta discontinuità, basata su incentivi fiscali e sussidi per creare il terreno favorevole a una crescita della capacità produttiva interna su tempi più lunghi. Biden ha anche autorizzato il transito di unità della marina nello stretto di Taiwan. È un monito a Pechino, e il significato è chiaro: l’America è tornata nel gioco globale della geopolitica. Biden non vuole minacciare la Cina; il suo obiettivo è semplicemente ribadire con forza che Taiwan non deve subire interferenze e che l’America è intenzionata a rafforzare la sua industria di semiconduttori con incentivi fiscali e fondi federali. Allo stesso tempo, il presidente Usa fa pressioni per stanziare aiuti per il settore pari a 37 miliardi di dollari. A febbraio ha firmato un ordine esecutivo che promuove una ristrutturazione della filiera dei semiconduttori, delle tecnologie IT e dell’advanced chip packaging. “Darò indicazioni a personalità di primo piano della mia amministrazione affinché collaborino con i leader industriali per trovare una soluzione alla carenza di semiconduttori”, ha annunciato Biden firmando l’ordine esecutivo. “Il congresso ha dato il via libera ma c’è bisogno di 37 miliardi di dollari per essere certi di avere la necessaria capacità produttiva. Anche questo è un mio obiettivo. Di recente abbiamo visto quali sono le conseguenze della mancanza di microchip e semiconduttori: ci sono stati ritardi nella produzione delle automobili, che hanno causato un taglio nelle ore di lavoro degli operai americani… dobbiamo fare in modo che queste supply chain siano sicure e affidabili”, ha dichiarato Biden.
Sui chip, l’Europa resta a guardare
Ma cosa fa il Vecchio Continente mentre Washington e Pechino si danno battaglia per il controllo delle catene di approvvigionamento globali di semiconduttori? Per adesso rimane a guardare il braccio di ferro tra le due superpotenze. Al momento, l’Europa non è un player abbastanza importante, e non conta molto. Vale circa il dieci per cento dell’industria mondiale dei semiconduttori, e i produttori di automobili europei sono stati presi alla sprovvista proprio come è successo ai loro concorrenti a Detroit. In termini generali non c’è dubbio che la strategia asiatica dell’amministrazione Biden punti a riunire gli alleati sotto la bandiera della democrazia, soprattutto per quanto riguarda il confronto con la Cina. Purtroppo per Washington, alcuni dei suoi più grandi amici in Europa e in Asia hanno rapporti commerciali e finanziari con il Sol Levante tanto profondi che potrebbero considerarli prioritari. Nel frattempo, la storia dei semiconduttori ci offre molte lezioni da imparare. E c’è anche un risvolto geopolitico in evoluzione. Fa tutto parte di un quadro più ampio: l’imminente battaglia per la supremazia tecnologica tra le due superpotenze del ventunesimo secolo, Stati Uniti e Cina. Una tecnodemocrazia e una tecnoautocrazia.
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