di Maria Cecilia Chiappani | Come ingranaggio strettamente connesso a una crisi globale senza precedenti, l’industria italiana della componentistica automotive si scontra con l’incertezza. Al momento, infatti, la filiera si trova ad affrontare la crisi dei microchip, i rincari delle materie prime e i conseguenti rallentamenti della produzione e delle consegne. Oltre al calo delle esportazioni e ai problemi logistici internazionali. Il tutto accompagnato dalla pandemia, che a più riprese condiziona industria, commercio e clima di fiducia. In generale, cresce la consapevolezza che nulla è più come prima, e che la via d’uscita non può che essere nella trasformazione coraggiosa e innovatrice dei modelli di business. Dalla transizione ecologica alla digitalizzazione, il comparto ha già davanti a sé i trend evolutivi della ripartenza. Le premesse dell’Osservatorio sulla componentistica automotive italiana 2021 – realizzato da Camera di Commercio di Torino, Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica) e Cami (Center for Automotive and Mobility Innovation dell’Università Ca’ Foscari di Venezia) – ci aiutano a comprendere lo scenario internazionale che sfida l’attualità italiana.
Leggi l’articolo integrale sul numero 12 di Elettronica AV
I numeri del caos commerciale
Sul commercio internazionale che più interessa la filiera automotive, pesano le difficoltà di collegamento e di trasporto, nonché le misure sanitarie attuate dai diversi Paesi. La caduta del 2020, tradotta in cifre, si attesta al -8,5% sull’anno precedente. Geograficamente parlando, Area Euro, Usa e Cina re- stano comunque protagonisti, rispettivamente con quote di beni e servizi pari a 26,7%, 9,7% e 12,4%. Quanto al barometro delle merci, l’ultimo indice rilevato (aprile 2021) si attesta a 109,7, quasi 10 punti al di sopra del valore di riferimento di 100 e in aumento di 21,6 punti su base annua. Un dato bifronte, che riflette sia la forza dell’attuale ripresa, sia la profondità dello shock vissuto nel 2020. Certamente, la filiera automobilistica è tra le più colpite dai vari lockdown: il 2020 si è concluso con una contrazione degli scambi commerciali superiore al 15% in quantità rispetto al 2019. Tuttavia, il comparto ha recuperato bene nell’ultimo trimestre dell’anno, grazie ai piani di incentivi all’acquisto dei principali Paesi europei. Secondo le ultime stime del Wto (World Trade Organization), il volume del commercio mondiale delle sole merci dovrebbe aumentare dell’8% nel 2021, ma l’accelerazione post-crisi ha portato nuovi rischi che stanno impattando le catene globali del valore fortemente connesse per lo scambio di beni finali e intermedi, come quella automotive.
Trasporti e logistica lievitano
Le misure sanitarie e la simultanea ripartenza di tutti i sistemi industriali mondiali hanno causato anche la pesante perdita di efficienza del sistema di trasporto locale e internazionale. Nel 2021, tutte le aziende che commerciano con l’Asia si trovano ad affrontare un aumento esponenziale dei noli marittimi, in una situazione che non riguarda più solo l’Oriente. Come si è arrivati a questo punto? Tra febbraio e marzo 2020 il traffico da e verso la Cina ha risentito della chiusura delle imprese cinesi e la domanda si è poi “affannata” alla riapertura. Al contempo, la permanenza a casa di centinaia di milioni di cittadini nel mondo ha spinto moltissimo il commercio elettronico. Dato che la maggior parte di questi prodotti è realizzata in Asia (soprattutto in Cina), è aumentata anche la richiesta di trasporti da quest’area verso il resto del mondo. Una tendenza non adeguatamente bilanciata dalla crescita delle importazioni cinesi: sostanzialmente i container “uscivano” pieni ed “entravano” vuoti, con conseguente aumento dei costi. I numeri di questa dinamica rendono meglio l’idea: a metà luglio 2021 il prezzo del nolo per un trasporto via mare di un container da 40 piedi da Shanghai a Rotterdam superava i 12mila dollari, segnando un +595% sull’anno precedente (fonte: Drewry World Container Index).
Le materie prime viste dai prezzi
Altro elemento critico globale è il caro materie prime. Durante il lockdown, le imprese hanno di fatto azzerato gli ordini e dato fondo alle scorte di magazzino. Alla ripresa delle attività produttive, è seguita una vera e propria corsa alle materie prime, sia per produrre beni sia per ripopolare lo stock. Questo ha fatto schizzare i prezzi di rame, alluminio e acciaio, mentre l’alto costo del litio e delle terre rare si deve anche all’accelerazione della transizione ecologica. Complica il quadro l’annosa questione dei dazi doganali introdotti nel 2018, durante la guerra commerciale tra Usa ed Europa e tra Usa e Cina. I meccanismi protezionistici hanno infatti creato ulteriori tensioni, che l’arrivo del presidente americano Joe Biden non ha ancora attenuato. Nel complesso, le aziende della filiera hanno dovuto ritoccare i prezzi di vendita, innescando un circolo vizioso che spinge all’inflazione.
Il grande vuoto dei microchip
In aggiunta ai problemi elencati sopra, c’è l’ormai nota carenza dei microchip. Non dimentichiamo, infatti, che per la filiera automotive l’elettronica intelligente è ormai fondamentale quanto la meccanica: in un’automobile si contano circa 3.000 microchip. La forte domanda, stimolata dalle nuove necessità tecnologiche di smart working o didattica a distanza, unita ai rallentamenti della produzione dovuti alle restrizioni anti-covid, ha generato una profonda crisi nell’approvvigionamento di questi componenti. Di riflesso, stanno aumentando i tempi di consegna dei prodotti e i relativi prezzi al dettaglio. Diversi costruttori hanno addirittura tagliato la produzione (vedi General Motors e Ford negli Usa o Volkswagen in Europa). Anche Audi, Volvo e Stellantis hanno dovuto bloccare alcuni impianti produttivi in Belgio e in Italia, compreso quello di Melfi. Quando possibile, le aziende hanno deciso di aggirare il problema sostituendo alcuni componenti, come nel caso della Peugeot 308, sulla quale Stellantis installerà tachimetri analogici al posto di quelli digitali. Ma il boom della richiesta non è l’unica causa della crisi. La maggior parte della produzione di microchip avviene in Asia, tra Taiwan e Corea del Sud, in un numero ridotto di fabbriche. Considerando che per consegnare un’unità ci vogliono circa sei mesi, nel medio-lungo periodo sarà necessario aumentare la capacità produttiva. Le aziende lo sanno e si stanno muovendo: Intel ha annunciato un investimento di 20 miliardi di dollari per creare nuovi stabilimenti in Usa ed Europa; la taiwanese Tsmc metterà sul tavolo 100 miliardi di dollari in tre anni per aumentare la propria capacità. Tuttavia, la re- alizzazione di queste operazioni richiede tempo e l’allarme è destinato a durare ancora diversi mesi.
Leggi l’articolo integrale sul numero 12 di Elettronica AV