di Virna Bottarelli | Ministro del Lavoro nel secondo Governo Prodi, Cesare Damiano ha apposto la sua firma al decreto 81 del 2008 sulla Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che, come lui stesso ricorda, “ha costituito uno spartiacque nella battaglia contro gli incidenti sul lavoro, gli infortuni mortali, le malattie professionali e per la sicurezza e l’integrità psico-fisica dei lavoratori”. Secondo Damiano, negli ultimi anni l’impegno profuso nella sicurezza non è stato indifferente, soprattutto per quanto riguarda l’Inail, che tra il 2010 e il 2020 ha investito quasi 5 miliardi di euro nei bandi che finanziano le imprese per i piani di investimento a favore della prevenzione e nella riduzione dei premi assicurativi per le aziende che hanno certificato un intervento di prevenzione. Eppure, “il numero dei morti sul lavoro ci dice che ancora non abbiamo centrato l’obiettivo”.
Che cosa dicono i numeri più recenti e come li dobbiamo interpretare?
Stando alle risultanze più recenti pubblicate da Inail, le denunce di infortunio sul lavoro pervenute nel 2021 sono state 555.236, in aumento rispetto alle 554.340 del 2020. Nonostante siano diminuiti gli infortuni verificatisi in occasione di lavoro (passati da 492.123 a 474.847), quelli in itinere hanno fatto registrare un sostanzioso aumento (da 62.217 a 80.389). La gestione maggiormente coinvolta rimane quella di Industria e servizi (con un totale di oltre 460mila denunce nel corso del 2021), mentre il settore specifico più colpito è quello manifatturiero (oltre 65mila denunce di infortunio, rispetto alle 58mila dell’anno precedente), seguito dalla sanità (scesa da 84mila a poco meno di 40mila) e dalle costruzioni (che ha visto crescere le denunce di infortunio da 24mila a quasi 30mila).
Le denunce continuano a riguardare maggiormente il Nord del Paese (con oltre 345mila divise tra Nord-Ovest e Nord-Est). Gli infortunati sono principalmente uomini (354.679 contro 200mila), mentre la classe di età più colpita rimane quella compresa tra 50-54 anni, nonostante un lieve calo registrato (da 82.388 a 73.402 in un anno).
La diminuzione sinora registrata è stata però assai meno evidente se riferita alle denunce di infortunio aventi avuto esito mortale: in questo caso, infatti, si è passati da 1.270 a 1.221 decessi.
Incrociando i dati Inail con le 3.622 violazioni riscontrate nei soli primi tre mesi del 2021 dall’INL in materia di SSL, ad emergere è ancora un quadro tutt’altro che soddisfacente. Infine, con riferimento al binomio pandemia- infortuni, le denunce di infortunio sul lavoro da Covid-19 rilevate al 31 dicembre 2021 sono state 42.561, rispetto alle oltre 130mila del 2020.
Il riacutizzarsi del fenomeno infortunistico nel periodo dell’emergenza causata dal Covid-19, ha ricondotto istituzioni e addetti ai lavori a un’attenzione sulla scarsa efficacia delle tutele sostanziali. Attenzione che ha portato il Governo a elaborare un piano di azione attuato con l’emanazione del c.d. decreto Fiscale. La sensibilità al tema è aumentata, e questo è un vantaggio per tutti, tuttavia, le azioni messe in campo dal legislatore nell’ultimo anno sono solo il primo passo di una nuova attenzione verso la sicurezza dei luoghi d lavoro, che deve però coinvolgere tutti i soggetti, dai diversi livelli istituzionali alle imprese.
La stessa pandemia ha evidenziato l’importanza delle trattative negoziali per la ricerca di soluzioni condivise a problematiche articolate. Il fondamentale ruolo integrativo dei Protocolli condivisi potrebbe essere preso da esempio per la negoziazione di intese, tra istituzioni nazionali e regionali e parti sociali, dedicate alla sicurezza nei luoghi di lavoro, in grado di dare maggiore efficacia alle leggi già in vigore. Come da ultimo avvenuto in tema di lavoro agile, con la sottoscrizione il 7 dicembre 2021 del primo Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile tra il Ministero del Lavoro e le Parti sociali. Le contrattazioni integrative possono incidere maggiormente e garantire regole aggiuntive e pienamente operative perché hanno una delega ampia in maniera.
Lei sostiene che le imprese devono considerare la spesa in sicurezza e prevenzione come un investimento. Perché è ancora oggi così difficile far passare questo concetto?
Ci vuole un cambio culturale affinché si comprenda che la sicurezza non è un costo, bensì un investimento. Il problema è di natura culturale, collegato anche alla necessità di diffondere al meglio i contenuti di norme complesse, in un mercato del lavoro molto frammentato e in continua evoluzione. La pandemia, dal canto suo, ha aggravato la situazione, fungendo spesso da alibi per molte aziende per ridurre ulteriormente gli investimenti sulla sicurezza.
I datori di lavoro violano la normativa cautelare con l’intento di conseguire un risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, ad esempio risparmiando sui costi connessi ai DPI e/o decidendo di proseguire lo svolgimento della propria attività senza adottare misure di protezione adeguate per i propri dipendenti. È noto invece che le conseguenze pregiudizievoli, di natura economica e sociale, per il datore di lavoro, occasionate da un grave infortunio o dalla morte di un lavoratore, sono superiori ai risparmi derivanti dal mancato adeguamento alla normativa di prevenzione. Investire in SSL consente non solo di ridurre i rischi ma anche di aumentare la produttività e la redditività.
Serve dunque un cambio di passo culturale, trasmettendo alle aziende la visione di questo sforzo economico come un investimento, in un’ottica proattiva, in cui la formazione svolge un ruolo sempre più centrale. La cultura della prevenzione si crea infatti soprattutto con l’informazione e la formazione, non solo dei lavoratori, dei preposti ecc., ma anzitutto dei datori di lavoro. In tal senso ben venga l’inserimento dell’obbligo formativo anche per quest’ultimi, previsto a seguito dell’emanazione del c.d. decreto Fiscale e in attesa di regolamentazione da parte di un Accordo Stato Regioni di prossima adozione.
Quali strumenti si potrebbero adottare per stimolare le imprese a investire in sicurezza?
La legge da sola non è sufficiente a stimolare le imprese a investire nella SSL, sono necessarie strategie aggiuntive, come ad esempio gli investimenti in formazione e informazione per affermare la cultura della prevenzione, la previsione di agevolazioni fiscali per favorire il rinnovo dei macchinari, meccanismi premianti per le imprese più virtuose ecc.
In tal senso, prospettive incentivanti sono in realtà rinvenibili in alcune disposizioni normative già vigenti, ma mai attuate. Il riferimento è al sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi ex art. 27 del d.lgs. 81/2008. Una disposizione che a distanza di quasi 14 anni è ancora inattuata, ma che volli fortemente come Ministro del Lavoro, affinché l’accesso agli appalti ed ai subappalti, pubblici e privati, fosse consentito solo alle imprese più virtuose.
In primis, nel settore delle costruzioni il sistema di qualificazione delle imprese, se attuato, consentirebbe la continua verifica della idoneità tecnico-professionale sostanziale – e non solo cartacea e formale – delle imprese appaltatrici e subappaltatrici, tenendo conto di elementi come gli adempimenti formativi e l’assenza di sanzioni da parte degli organi di vigilanza. Si tratta della c.d. patente a punti, di cui negli ultimi anni si è tornati a parlare. Uno strumento che prevede l’attribuzione alle imprese e ai lavoratori autonomi di un punteggio iniziale soggetto a decurtazione, a seguito di accertate violazioni in materia di SSL. L’azzeramento del punteggio per la ripetizione di violazioni prevenzionistiche determina l’impossibilità per l’impresa, o per il lavoratore autonomo, di svolgere attività nel settore edile. Ma l’art. 27 è solo uno dei quasi venti provvedimenti del d.lgs. n. 81/2008 ancora in attesa di attuazione: le norme ci sono, serve darne concreta attuazione e parallelamente agire con ulteriori meccanismi incentivanti e premianti.
Per quelle professioni nelle quali il confine tra vita lavorativa e vita privata si fa meno netto, c’è il rischio di spostare troppo il peso della responsabilità della sicurezza verso il lavoratore? Come evitarlo?
Ancor prima del devastante impatto della pandemia causata dal COVID-19, si è assistito a profondi cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro e nei modelli organizzativi d’impresa, con l’emersione di nuovi rischi e nuove problematiche legate alla salute e sicurezza dei lavoratori.
Negli anni è infatti aumentata l’esigenza di maggior flessibilità organizzativa e di digitalizzazione da parte delle imprese e degli stessi lavoratori, alla ricerca di un miglior equilibrio tra vita e lavoro. Mutamenti strutturali del mondo del lavoro che rappresentano una reale opportunità per migliorare il benessere dei lavoratori, ma che, se non adeguatamente governati con opportune tutele, possono esporre i lavoratori interessati a rischi aggiuntivi rispetto a quelli già più noti e tradizionali, come l’eccessiva instabilità occupazionale ed economica e l’eccessivo carico lavorativo, sullo sfondo di un quadro di tutele inadeguato, derivante in primis dalla assenza di una corretta qualificazione giuridica dei rapporti contrattuali.
C’è pertanto l’esigenza di una definizione più chiara dell’obbligo prevenzionistico datoriale a fronte di rischi esogeni, trasversali e imprevedibili – di cui il COVID rappresenta solo un esempio più recente. A tal proposito, come ho già evidenziato, la pandemia ha offerto l’occasione per intensificare i meccanismi di co-gestione del rischio “educando” il dialogo sociale, specialmente a livello aziendale, alla produzione di fonti integrative che contengano regole modali chiare e dettagliate nel rispetto delle fonti sovraordinate, nonché meccanismi di controllo partecipati. Emblema di questa nuova gestione del rischio è certamente rappresentato dal già menzionato Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile. Nel quale, con specifico riferimento al tema della SSL, è stato meglio declinato l’obbligo prevenzionistico sia datoriale che del lavoratore.
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