Salini: in Europa deve essere l’impresa il punto di partenza

Un modello di sviluppo economico fondato sulla libertà di impresa, da un lato, e imprenditori capaci di raccogliere la sfida della digitalizzazione, dall’altro. È questa l’Europa per la quale lavora Massimiliano Salini, dal 2014 parlamentare europeo nelle file del Ppe e relatore del Programma Spaziale Europeo 2021-2027

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Salini Europa

di Virna Bottarelli |

<<La piccola e media impresa deve sapere che per competere in un mercato così complesso bisogna saper coltivare continuamente la cultura della relazione con gli altri attori: è così che la filiera diventa essa stessa una grande impresa, capace di condividere uno spirito di squadra>>  

Salini Massimiliano
Massimiliano Salini, parlamentare europeo dal 2014

Per Massimiliano Salini il 2020 si è chiuso con la soddisfazione di vedere approvato l’accordo sul Nuovo Programma Spaziale Europeo 2021-2027, di cui è stato relatore, e l’auspicio di potenziare la competitività delle aziende italiane sul mercato globale. Sono risultati concreti, in linea con la sua visione secondo la quale “il sogno dell’Europa ha i piedi per terra”, e con il suo ruolo di parlamentare europeo impegnato, dal 2014, a promuovere un’economia di mercato in cui competitività e libertà imprenditoriale siano in equilibrio con la giustizia sociale. 

Il suo mondo di provenienza è quello della Pmi: come è cambiato questo mondo negli ultimi anni e quali sono le prospettive, oggi, per un piccolo imprenditore industriale in Italia?

Le Pmi sono da un lato il cuore pulsante della vita economica del nostro Paese, ma dall’altro possono continuare a esserlo nella misura in cui accettano la nuova dimensione costituita dall’inserimento sempre più strutturato in filiere di valore più grandi e internazionali. La selezione naturale determinata dalla crisi innescata dal Covid-19 provocherà uno spostamento massiccio del valore, del lavoro e delle competenze da settori piuttosto fermi, non più in grado di generare valore aggiunto, a settori più dinamici, con un più ampio margine di miglioramento e prospettive. Le Pmi devono ancorarsi a queste filiere, pensare al destino finale del loro prodotto e collocarvisi attraverso azioni di rete forti. Un esempio sono proprio le filiere dell’aerospazio, nelle quali operano grandi imprese il cui indotto arriva a toccare l’ultimo anello della catena.

Lei ha da un lato un legame molto stretto con il territorio e dall’altro una forte vocazione europeista: qual è il punto di equilibrio tra la necessità di tutelare gli interessi locali e adottare regole che devono stare al di sopra delle parti?

Il punto di equilibrio è figlio del buon senso. In tutte le cose il buon senso costringe a considerare il nesso tra il particolare e l’intero nel quale il particolare è collocato. L’attività di impresa è una di queste: per tutelarla devi avere consapevolezza del rapporto con i clienti, i fornitori, del contesto in cui operi, dal Comune all’autorità statale. Per tutelare il proprio Paese e il proprio territorio, proteggendo insieme interesse particolare e interesse generale, serve la consapevolezza che il contenuto principale dell’interesse particolare sta nel suo rapporto con l’interesse generale e viceversa, perché l’alimento fondamentale dell’interesse generale sta nel rispetto degli interessi particolari che lo compongono. Stiamo parlando, dal punto di vista giuridico, del principio di sussidiarietà, fondamento delle Istituzioni Europee: i livelli superiori non intervengono laddove i livelli inferiori possono agire autonomamente, ma solo laddove autonomamente i livelli inferiori non sono autosufficienti. È un principio giuridico-economico che a sua volta si fonda sul principio di solidarietà: stiamo insieme perché così possiamo andare più lontano.

Come possono le istituzioni in Europa essere una presenza costruttiva per le imprese? E qual è la percezione che ne hanno le imprese stesse?

Per capirne l’utilità, l’Unione Europea va conosciuta e vissuta. È un soggetto imponente, spesso visto come qualcosa di distante da cittadini e imprese, ma la sua attività è fondamentale: coordina l’erogazione delle risorse che i Paesi membri utilizzano per realizzare le infrastrutture e finanziare quelle innovative, come quelle satellitari e spaziali. Ha dunque una funzione molto concreta, sebbene a volte questo aspetto sfugga, ed è il caso di dire che avrebbe un impatto più pesante, in senso negativo, la sua assenza. È importante però che l’UE compia una scelta di campo che non ha ancora compiuto: deve scegliere un modello di sviluppo economico fondato sulla libertà di impresa. A volte, nelle stanze delle istituzioni europee, così come nelle Pubbliche Amministrazioni di molti Paesi membri, serpeggia uno statalismo di ritorno secondo il quale all’origine della forza economica di un Paese ci siano lo Stato e le sue articolazioni. Nella mia visione, invece, è vero il contrario: lo Stato e le sue articolazioni sono al servizio di quello che è il perno della creatività, le imprese. Manca ancora la consapevolezza di quale sia l’origine del valore aggiunto di un continente che ha saputo diventare un protagonista economico mondiale sebbene sia il meno provvisto di materie prime al mondo: gli imprenditori. È vendendo ciò che produce che l’Europa ha fatto la differenza ed è per questo che si deve ripartire dagli imprenditori. 

Dopo gli anni dell’outsourcing, pensa sia possibile immaginare un ritorno della produzione nei Paesi dell’Europa occidentale? 

Una delle ragioni per le quali sono in politica è proprio questa: voglio che l’Unione Europea rimanga la casa della manifattura da tutti i punti di vista, che tuteli l’interesse delle sue filiere. L’idea, un po’ cinica, di spostare il lavoro “sporco” da una parte del mondo e tenere quello “pulito” da un’altra non regge il confronto con la storia. C’è un particolare che a volte anche alla politica sfugge: non c’è un uomo al mondo che si deve rendere disponibile a fare il lavoro sporco. L’esperienza lavorativa è un’esperienza di comunità, nella quale tutti si assumono una responsabilità e l’onere di condurre l’attività verso risultati positivi. Non possiamo accettare che vi siano individui posti in una condizione di moderna schiavitù. E la stessa innovazione prospera se è a contatto con la produzione: la ricerca applicata svolta all’interno delle nostre attività imprenditoriali è brillante nel momento in cui vive a stretto contatto con la produzione. Mi impegno dunque per un mondo nel quale tutti abbiano la possibilità di lavorare in condizioni dignitose e di affrontare in maniera compiuta gli aspetti in cui si articola l’attività di impresa: ricerca & sviluppo, management e produzione.

Lavora al Parlamento Europeo dal 2014: se dovesse citare il momento più critico vissuto dall’Europa in questi anni, quale indicherebbe?

Di certo la situazione più critica che abbiamo mai affrontato è la pandemia di Covid-19, ma in questo caso parliamo di una crisi che ha interessato tutto il mondo, non solo l’Unione Europea. Per quest’ultima, invece, l’evento più traumatico è l’uscita del Regno Unito. La Brexit ha letteralmente “scombussolato” il clima politico e istituzionale e ha costretto l’UE a farsi molte domande su quali siano i veri punti di unità tra i Paesi membri, al di là dei trattati e della forma. Lo stesso processo negoziale svoltosi nell’anno di transizione e conclusosi con l’accordo del 24 dicembre ha svelato molti difetti, sui quali dovremo lavorare.

A suo avviso, chi è il vero sconfitto in questa vicenda: la Gran Bretagna o l’UE?

Credo che l’Unione Europea abbia “perso” dal punto di vista politico, perché all’UE, in quanto soggetto internazionale, spettava la responsabilità di trovare quel punto di incontro che non è stato trovato. Dal punto di vista economico e sociale, però, non ho dubbi, e ne sono dispiaciuto, che a pagare il prezzo più alto di questa separazione saranno i cittadini britannici: il Regno Unito è un grande Paese che nell’Unione Europea è cresciuto dal punto di vista economico, sociale e culturale. Pur essendo rimasto in posizione un po’ laterale rispetto a certe dinamiche, è sempre stato un soggetto determinante, nel cuore della comunità dei popoli europei, con una struttura economica e finanziaria molto legata all’UE.

In tema di dati e digitalizzazione: si dice che la pandemia abbia fatto fare in pochi mesi un salto in avanti per il quale sarebbero serviti anni. C’è modo di recuperare le imprese che in questo processo sono rimaste indietro? 

Sì, la possibilità c’è ma devono essere in primo luogo le imprese a raccogliere la sfida del digitale. Posso capire le difficoltà e il clima a volte poco propizio in cui si trova a operare l’imprenditore, che non vede possibilità di sviluppo e considera l’innovazione un processo inaccessibile, ma bisogna capire che oggi senza digitalizzazione non si può stare sul mercato. Non ci sono alternative: quello della digitalizzazione è un percorso che va intrapreso e deve essere alla portata di tutti, ma richiede necessariamente la disponibilità dell’imprenditore ad avviarlo.


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