di Virna Bottarelli |
Una laurea in fisica all’Università di Pisa, un Diploma di perfezionamento in ingegneria alla Scuola Superiore Sant’Anna, un post-dottorato in bioingegneria, la ricerca in Italia e all’estero e la guida del Ministero dell’Istruzione: Maria Chiara Carrozza è uno dei profili più qualificati che il mondo accademico e scientifico nazionale possa vantare. Il 12 aprile del 2021 è stata nominata Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, carica che ricoprirà fino al 2025.
Quale indirizzo sta dando al CNR, anche in virtù della sua esperienza di ricercatrice, accademica e politica?
L’obiettivo è rendere il Consiglio Nazionale delle Ricerche uno strumento strategico per sviluppare la ricerca e le competenze di cui il Paese ha tanto bisogno in questo momento. Abbiamo di fronte tantissime sfide e il CNR possiede una pluralità di saperi, conoscenze, ricerche, progettualità che possono consentire di affrontarle nel modo migliore: da una parte, con il suo respiro multidisciplinare, può direttamente svolgere progetti di R&S, dall’altro può contribuire al disegno e alla gestione di strumenti di finanziamento, mediando tra Governo e comunità dei ricercatori, dalle organizzazioni scientifiche e dalle imprese. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche deve sempre più combinare il fare ricerca e l’azione di agenzia, recuperando quel ruolo centrale che ha già svolto in passato, basti pensare ai Progetti Finalizzati, e che già svolge nel coordinamento di molte infrastrutture europee di ricerca.
Nello scenario attuale, quali sono gli ambiti prioritari verso i quali andrebbe focalizzata la ricerca?
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza identifica alcuni temi centrali, che riguardano la transizione ecologica, la salute, la digitalizzazione, la formazione. Ma dobbiamo ricordare che senza ricerca di base, libera e curiosity driven, non avremmo risultati applicativi. Lo abbiamo imparato con la pandemia. Tutti capiscono l’importanza dei vaccini: ma il vaccino è un prodotto che si può sviluppare perché c’è prima una ricerca fondamentale in biologia molecolare, immunologia, virologia.
I ricercatori in Italia in proporzione alla forza lavoro sono meno che in Francia e Germania; così pure la popolazione in età lavorativa con dottorato di ricerca e gli iscritti al dottorato. Dove si deve intervenire per migliorare questi dati?
Il Dottorato Industriale può essere uno strumento utile? Una parte notevole dei nostri studenti purtroppo svolge il dottorato all’estero. Solamente in Austria, Francia, Spagna, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti ci sono più di 12 mila studenti italiani frequentanti corsi di dottorato. L’Italia invece ospita studenti da altri Paesi in una quo- ta pari al 15,7%, molto inferiore a Paesi Bassi (44,0%), Belgio (41,4), Regno Unito (42,5) e Francia (38,2%). Gli studenti in Italia provengo- no principalmente da Paesi emergenti, i primi tre sono Iran, Cina e India. Inoltre, molti dottori di ricerca in Italia trovano occupazione all’estero, circa il 13% dopo qualche anno, testimoniando la buona qualità della formazione ricevuta. Non sorprende questa collocazione professionale fuori dall’Italia, del resto, se si pensa che dopo sei anni dal conseguimento del titolo, il reddito medio mensile è pari a 1.679 euro in Italia e 2.700 euro all’estero. I settori dove è più forte l’esodo sono proprio le STEM: il 32% nelle Scienze fisiche, il 27% in Scienze matematiche e informatiche, il 19% in Ingegneria industriale e dell’informazione. Il Dottorato Industriale è stato introdotto proprio per aumentare lo sbocco professionale dei dottori di ricerca nell’industria: il dottorando è guidato da tutor aziendali e accademici e svolge parte del suo percorso in azienda. Per promuovere il Dottorato Industriale, Confindustria e CNR hanno elaborato progetti per borse in cui ricerca e impresa siano protagonisti del processo finalizzato alle esigenze delle imprese. I primi esperimenti sembrano fornire segnali incoraggianti.
Commentando la Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, ha ribadito che il Pnrr è un’occasione irripetibile. Pensa siano sufficienti le risorse del Pnrr per far fare al nostro Paese un salto di qualità?
In cifre, il Pnrr destina alla ricerca e sviluppo 17 miliardi di euro, suddivisi tra ricerca applicata e sviluppo sperimentale (circa 10 miliardi), ricerca di base (4 miliardi), azioni trasversali e di supporto (1,88 miliardi) e trasferimento tecnologico (380 milioni). Un’occasione unica e probabilmente irripetibile: per instaurare il circolo virtuoso tra ricerca e innovazione e sviluppo economico e sociale del Paese; per avviare numerosi progetti di sviluppo scientifico e tecnologico e nuove collaborazioni tra mondo accademico, amministrazione pubblica, enti locali e industria; per incentivare la collaborazione tra settore pubblico e privato diretta verso la soluzione delle grandi sfide della società. Tali condizioni devono essere però mantenute, assicurando adeguate risorse ordinarie anche quando le risorse straordinarie del Pnrr avranno esaurito il proprio compito.
Siamo comunque sulla buona strada?
I dati positivi non mancano. La spesa per R&S in rapporto al Pil in Italia è in lieve ripresa; cresce il personale addetto alla R&S (218 mila addetti); la quota di pubblicazioni scientifiche sul totale mondiale è in aumento; c’è un miglioramento anche nel deposito dei brevetti. Per quanto riguarda i Programmi Quadro europei, il nostro Paese contribuisce al bilancio per la ricerca comunitaria con il 12,5%, i finanziamenti che ritornano sono invece pari a solo l’8,7%. Ciò dipende anche dal fatto che i ricercatori in Italia sono meno che nei nostri partner (6 su mille unità di forza lavoro, contro oltre 10 in Francia e Germania). E bisogna anche aumentare il tasso di successo, specie nel coordinamento delle proposte, che nel nostro Paese è pari all’8,6%, mentre per Germania, Regno Unito, Francia e Paesi Bassi e Belgio si attesta tra il 14 e il 15%.
Delle diverse frontiere che la ricerca sta esplorando nell’ambito dell’ingegneria elettronica, quali sono secondo lei quelle che avranno le ricadute più significative sul sistema industriale e sulla società?
Faccio solo l’esempio della robotica, molto vicino alle mie competenze di ricerca. Se da un lato è della massima importanza produrre mo- tori, strutture articolate e componenti affidabili – la meccanica del robot –, dall’altra è cruciale il controllo, reso possibile grazie allo sviluppo dell’informatica e della teoria dei controlli. Con la terza rivoluzione industriale, oltre ai meccanismi, vengono fortemente sviluppati e raffinati i sensori, che permettono la misura dello spostamento, l’accuratezza e la gestione della velocità, grazie anche alla parte computazionale. In questo ambito vi è stata una maturazione progressiva, grazie anche a elementi di bioispirazione. Questo apre molte possibilità di utilizzo della robotica: si sta sviluppando un filone nella robotica sociale, in cui il robot coadiuva l’essere umano e non lo sostituisce, rappresentando quindi un potenziamento funzionale, dalle protesi alla robotica collaborativa, in cui lo spazio di lavoro viene condiviso tra il robot e l’operatore, uno scenario di interazione e non sostituzione.
Il professor Paolo Dario della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa sostiene che non si possa svincolare l’uso della tecnologia dal contesto umano e sociale e che un buon ingegnere debba coltivare anche un lato umanista. Anche lei ne ha uno?
Personalmente, a suo tempo scelsi di studiare fisica, ma ho sempre avuto una passione per la letteratura. Il sapere umanistico è fondamenta- le, anche per chi studia le scienze dure.
Chi è Maria Chiara Carrozza
Classe 1965, si laurea in fisica all’Università di Pisa nel 1990 e consegue successivamente il Diploma di perfezionamento in ingegneria alla Scuola Superiore Sant’Anna con una tesi di microfluidica biomedica. Dopo un post-dottorato in bioingegneria, Maria Chiara Carrozza diventa prima ricercatrice di bioingegneria meccanica, poi docente di bioingegneria industriale e direttrice della Divisione Ricerche della Scuola Superiore Sant’Anna, di cui sarà anche rettrice fino al 2013, quando si dimette in seguito all’elezione alla Camera
dei deputati nelle file del PD. Esperta in neuro-robotica, coordina in questo ambito progetti finanziati dalla Commissione europea, dal Miur e dalla Regione Toscana. È stata visiting professor all’Università di Vienna, docente di biomeccatronica all’Università Campus Biomedico di Roma, ha tenuto conferenze in prestigiose università internazionali ed è membro di società scientifiche internazionali nell’ambito della bioingegneria e della robotica. Dall’aprile 2013 al febbraio 2014 è stata Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca. Dal 12 aprile 2021 presiede il Consiglio Nazionale delle Ricerche.