di Alan Friedman | La decisione dell’Unione Europea di introdurre dazi elevati sui veicoli elettrici importati dalla Cina segna un’altra escalation nella guerra commerciale internazionale iniziata da Donald Trump nel 2017 e proseguita da Joe Biden, che sta usando le politiche protezionistiche per conquistare voti negli Stati in bilico.
Il Presidente degli Stati Uniti, lo scorso maggio, in campagna elettorale per la sua rielezione, ha annunciato nuovi dazi, che vanno dal 25% fino al 100%, su una serie di veicoli elettrici provenienti dalla Cina. Un’escalation delle politiche protezionistiche aggressive contro la Cina che Trump aveva in precedenza introdotto. Biden, ora, spera di raccogliere voti in Michigan, Pennsylvania e in altri Stati chiave che oscillano, proprio perseguendo le stesse politiche. “Gente, guardate: sono determinato a far sì che il futuro dei veicoli elettrici sia prodotto in America, da lavoratori sindacalizzati, punto e basta!”, ha dichiarato Biden.
A giugno, l’UE ha deciso di seguire l’esempio e di imporre i propri dazi sui veicoli elettrici, che arrivano anche fino al 38%. Il segno che i leader occidentali temono davvero la perdita di posti di lavoro che le loro economie subiranno a causa della concorrenza a basso costo e del dumping cinese. In effetti, i prezzi sono talmente bassi che anche una tassa del 38% potrebbe non frenare le vendite di veicoli elettrici cinesi in alcune parti d’Europa. Per quanto riguarda la Cina, l’UE ha chiaramente agito di concerto con Washington, come ha chiarito anche il recente vertice del G7 tenutosi in Puglia. Tuttavia, sia Washington che Bruxelles non colgono il punto. Si stanno impegnando in azioni che non risolveranno il problema fondamentale che l’Europa si trova ad affrontare: per produrre veicoli elettrici sono necessarie terre rare e batterie al litio, nonché molti semiconduttori avanzati, e non c’è modo per l’Europa di diventare meno dipendente dalla Cina in tempi brevi. A prescindere dalla retorica. A prescindere dai dazi. A prescindere dal “re-shoring” o “friend-shoring” o dalla costruzione di nuove capacità produttive che i politici amano annunciare. Anche sommando le centinaia di miliardi di dollari di nuovi investimenti in impianti per la produzione di semiconduttori in America, tra un decennio gli Stati Uniti dipenderanno ancora dalla Cina e da Taiwan per il 60% dei chip da loro utilizzati. L’idea dell’autarchia è pura follia. L’idea della riduzione del rischio o del “disaccoppiamento” non ha senso quando si può ridurre la dipendenza dalle importazioni solo del 10% in dieci anni, passando dal 70% al 60%.
Ecco perché credo che ci siano modi migliori per affrontare la Cina rispetto alle guerre commerciali e al protezionismo. Le pratiche commerciali sleali della Cina sono leggendarie e a tutti ben note. Ma i cinesi sanno trattare e, dopo la fine del ciclo elettorale presidenziale statunitense, sempre che Trump non sieda alla Casa Bianca, potrebbe essere il momento di cercare di stipulare con la Cina qualche accordo alla vecchia maniera. Per le due superpotenze potrebbe essere giunto il momento di interrompere le guerre commerciali e di iniziare invece a guadagnare con gli accordi commerciali.