Mercato: meglio allacciare le cinture

Guerra, inflazione, e denaro più caro: i rischi per l’economia sono tutti al ribasso e nell’ultima parte dell’anno ci attende un viaggio molto movimentato.

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mercato: allacciate le cinture

di Alan Friedman

Per l’economia italiana, come per buona parte dell’Europa, la seconda metà del 2022 sarà un periodo molto difficile e rischioso. La guerra in Ucraina e le interruzioni alle catene di approvvigionamento globali causate dal Covid stanno esigendo un pesante tributo, e già le previsioni relative al tasso di crescita del Pil sono state dimezzate, fino a raggiungere la soglia del due percento o poco più. L’inflazione galoppante, causata in Europa in primo luogo dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla carenza di materie prime, potrebbe continuare a correre per il resto dell’anno, e le modalità con cui Putin sta tagliando le forniture di gas all’Italia e ad altri Paesi sembrano indicare una volontà di tenere alti i prezzi. Si stima che l’inflazione raggiungerà almeno i sei punti percentuali di media quest’anno.

I prezzi dell’energia come strumento di guerra

Ormai tutti dovrebbero aver compreso che Putin utilizza i prezzi dell’energia come strumento di guerra: il dittatore russo aveva rallentato il flusso di rifornimenti all’Europa addirittura prima di invadere l’Ucraina, cosa che ha contribuito all’indebolimento della crescita dell’eurozona anche precedentemente al 24 febbraio. Adesso, con la guerra che si trascina avanti, è chiaro che tutti i rischi economici sono al ribasso. La determinazione di Putin a bloccare le esportazioni di grano dall’Ucraina causerà sofferenze e potenzialmente carestie in alcune parti dell’Africa. La guerra continuerà a deprimere sia la fiducia dei consumatori che gli investimenti del settore privato. I tassi di interesse in crescita su entrambe le sponde dell’Atlantico hanno già fatto aumentare lo spread tra i buoni del tesoro decennali italiani e i bund tedeschi. La goffaggine con cui Christine Lagarde ha presentato il piano della Banca centrale europea per aumentare i tassi di interesse e porre fine all’acquisto di titoli ha già creato confusione sui mercati finanziari; altrettanto maldestra è stata la convocazione di una riunione di emergenza per provare a rassicurare i mercati. Lagarde non è una buona presidente della Banca Centrale Europea; ha molta meno credibilità del suo predecessore, molta meno competenza, e decisamente non è brava a comunicare. Non è una vera banchiera centrale, ma una garrula politica francese venuta su come lacchè di Nicolas Sarkozy.

Per essere chiari, l’economia italiana non è in caduta libera, e potrebbe anche riuscire a spuntare un tasso di crescita positivo nel 2022, grazie a un effetto trascinamento dallo scorso anno, quantificabile in un +2,3%. Ma per quanto riguarda l’economia reale è chiaro, come mi ha detto Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, che gli effetti della guerra e soprattutto dei costi dell’energia e delle materie prime sono “devastanti” per le aziende italiane. Nel giro di soli sei mesi tutte le aspettative sono cambiate. È cambiato il mondo. In un’intervista per il mio nuovo libro Il prezzo del futuro, Bonomi mi ha detto: “Per noi imprenditori l’effetto sarà molto duro, devastante. Per il Paese significa meno crescita, meno fiducia, meno investimenti. Di fronte a delle bollette energetiche di questo tipo, gli investimenti rallenteranno. L’impatto economico è fortissimo.” E per buona misura ha aggiunto che “le conseguenze, purtroppo, le pagheremo per un lungo periodo”. I prezzi più alti dell’energia e del cibo continueranno quindi ancora per un po’ a erodere il potere d’acquisto delle famiglie italiane, e già questo in sé è un fattore che deprimerà i consumi. I ristori attesi a livello nazionale e locale si riveleranno una compensazione insufficiente per le perdite subite da molte delle imprese più piccole, mentre numerose aziende si limiteranno a tagliare la produzione, perché non riescono a generare profitti in queste condizioni.

Per l’Italia un’economia a due velocità

Nel 2022 è probabile che il settore dell’export farà da traino alla crescita del Pil, ora che l’economia americana aumenta la domanda di prodotti e servizi Made in Italy. Ciò implica che l’Italia avrà un’economia a due velocità: quella interna che va in sofferenza, l’export che cresce. Gli importanti settori del turismo e della moda stanno beneficiando della domanda americana in modo particolare. Ma da un’ottica complessiva, soprattutto per quanto riguarda i settori che dipendono dalle materie prime, l’orizzonte è fosco. Il problema è che secondo le stime il Pil dovrebbe crescere all’incirca del 2,3% quest’anno e dell’1,9% nel 2023, ma dopo, nel medio termine, ovvero da qui al 2030, questo dato dovrebbe tendere a stabilizzarsi intorno all’uno per cento annuo o poco più, sempre secondo il Fondo monetario internazionale. Il team dell’Fmi che di recente è venuto in visita a Roma ha specificato nel proprio rapporto che un simile tasso di crescita dipenderebbe comunque da un eventuale declino dei prezzi delle commodity, e soprattutto dall’effettiva capacità da parte italiana di spendere tutti i 220 miliardi di euro del Pnrr. L’ultimo prerequisito, purtroppo, non può essere dato per scontato.

Non sprechiamo l’occasione del secolo

Il motivo per cui il sottotitolo del mio libro recita “Perché l’Italia rischia di sprecare l’occasione del secolo” è che ci sono buone ragioni per dubitare che il Paese riuscirà a portare avanti le riforme necessarie per garantire l’erogazione dei fondi del Pnrr, a causa delle fibrillazioni all’interno della maggioranza con l’avvicinarsi delle elezioni nazionali, previste per la primavera del 2023. Senza Draghi al timone, è difficile immaginare come farà l’Italia a garantire continuità. Allo stesso modo è arduo prevedere che il prossimo primo ministro avrà le competenze indispensabili per tessere la complessa trama su cui imbastire riforme delicate e impopolari, raggiungendo così quelle milestones concordate con Bruxelles che non possono essere ignorate.

Adesso, sarà anche vero che finché c’è Draghi a Palazzo Chigi la Commissione Europea continuerà a fare l’occhiolino all’Italia e a garantire i fondi anche se le riforme che vengono approvate risultano piuttosto annacquate. Ma dopo Draghi non ci saranno più sconti, e in autunno qualsiasi segnale che indichi una difficoltà del premier a completare la propria missione per colpa dell’instabilità politica farà schizzare ancora più in alto lo spread. Se il fattore politico è dirimente, l’altra ragione per cui l’Italia rischia di sprecare l’opportunità del Pnrr è rappresentata dall’incapacità di spesa nei territori. La burocrazia, l’impreparazione degli staff, l’incapacità degli amministratori locali di assumere personale esterno per facilitare anche solo la preparazione dei moduli per ricevere i fondi: tutti questi problemi spiegano come mai l’Italia con ogni probabilità non riuscirà a spendere tutti i 220 miliardi da qui al 2026. Il fatto è che se il Paese non utilizza questi soldi, che assommano a un 40 miliardi di liquidità all’anno di stimolo all’economia fino al 2026, non sarà possibile raggiungere neppure un tasso medio di crescita del Pil dell’1 percento. Il rischio è quindi un ritorno a una crescita dello zero virgola qualcosa, simile al tasso medio di gran parte degli ultimi vent’anni, pari allo 0,7%.

Sul mercato il viaggio sarà movimentato

Insomma, nel breve periodo il mio consiglio è di allacciare le cinture: il viaggio sarà infatti parecchio movimentato a causa del pesantissimo prezzo della guerra che dovremo pagare. Nel medio periodo, invece, può dipendere solo dalla volontà degli elettori italiani: voteranno per la competenza e il pragmatismo o per la demagogia e il populismo?


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