a cura di Giorgia Andrei | *tratto dall’articolo “Exploring new regions: The greenfield opportunity in semiconductors”, di Ondrej Burkacky, Matteo Mancini, Mark Patel, Giulietta Poltronieri e Taylor Roundtree di McKinsey
La diffusione dell’intelligenza artificiale, della mobilità elettrica e dei veicoli a guida autonoma aumenteranno di molto la domanda di semiconduttori nel prossimo decennio. A livello globale, si prevede che entro il 2030 il settore registrerà investimenti per circa mille miliardi di dollari, risorse da destinare anche a progetti di fabbriche in regioni geografiche nuove rispetto a quelle già note. Come scegliere, però, un terreno fertile per la produzione di semiconduttori? Anche se diverse aziende concentrano ancora oggi i loro investimenti in luoghi con ecosistemi di grandi dimensioni, come la Silicon Saxony in Germania, con Dresda che rappresenta tuttora un polo per la produzione di semiconduttori, c’è una tendenza crescente a considerare nuove destinazioni perché, come sostengono gli esperti di McKinsey, ai requisiti tradizionalmente presi in considerazione nel selezionare il luogo dove investire – energia, forniture idriche, bacino di lavoratori con competenze tecniche, infrastrutture e trasporti – se ne aggiungono di nuovi: sicurezza della catena di fornitura, sostenibilità e disponibilità di finanziamenti governativi.
In cerca di sicurezza
Con la pandemia, l’incertezza economica globale e i conflitti in atto su diversi fronti, la percezione del rischio da parte delle aziende è cambiata. Secondo un recente sondaggio condotto da McKinsey tra gli amministratori delegati dei settori avanzati, molti dirigenti ora considerano le dinamiche geopolitiche come la sfida più importante da affrontare, monitorano attivamente i rischi della catena di fornitura e sviluppano strategie per prevenire interruzioni. Una strategia che ora sta ricevendo molta attenzione prevede la localizzazione della produzione di semiconduttori per prevenire interruzioni e aumentare la resilienza. È una tendenza che i governi spesso accolgono con favore, proprio perché vogliono garantire una fornitura costante di chip per le aziende del loro territorio, in primis quelle la cui produzione dipende fortemente dai semiconduttori. Non solo: gli Stati si stanno rendendo conto anche che l’accesso ai chip è essenziale per molte piattaforme di sicurezza governative.
Sostenibilità e costi energetici
Motivate dalla propria volontà o vincolate da normative sempre più stringenti, tutte le aziende di semiconduttori sono impegnate a ridurre le proprie emissioni e molte di loro hanno fissato obiettivi ambiziosi in termini di sostenibilità, anche per non perdere competitività nei confronti dei propri clienti, altrettanto focalizzati sul tema. Alcune aziende di semiconduttori hanno già fissato obiettivi di riduzione delle emissioni e le loro strategie spesso implicano la transizione verso fonti rinnovabili, considerato che più di un terzo delle emissioni di una tipica fabbrica derivano proprio dal consumo di energia. Ma la capacità di passare alle energie rinnovabili varia a seconda del luogo. Nei Paesi, come gli Stati Uniti, nei quali i costi di produzione dei semiconduttori sono relativamente elevati, poter fare affidamento sulle energie rinnovabili consentirebbe un notevole abbassamento della spesa in energia rispetto a quella da sostenere in molti Paesi asiatici. Singapore, ad esempio, ha un fiorente ecosistema di semiconduttori, ma pochi terreni disponibili per costruire impianti di energia rinnovabile. Il Paese vuole importare 4 gigawatt di elettricità a basse emissioni di carbonio – equivalenti a circa il 30% della sua fornitura elettrica – dai Paesi vicini entro il 2035: questo aumenterebbe chiaramente i costi energetici per un’azienda che voglia produrre semiconduttori in loco.
Chi offre di più?
Negli ultimi anni l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno aumentato i sostegni economici destinati alle aziende di semiconduttori. Alcuni Paesi che non hanno consolidati ecosistemi per la produzione di semiconduttori, per restare in Europa, la Spagna è uno di questi, stanno cercando di incoraggiarne la crescita con programmi progettati per attrarre investimenti che potrebbero avere un impatto notevole sulle prossime scelte di siti per installare nuove fabbriche. In tema di sussidi statali, il caso degli Stati Uniti ha fatto scuola negli ultimi anni: il Paese, che ha storicamente adottato misure come la riduzione delle imposte, ha recentemente potenziato le politiche di sostegno al settore. Gli Stati Uniti producono ad oggi circa il 12% dei chip realizzati al mondo e in questa percentuale non figurano quelli tecnologicamente più avanzati. Con il Chips and Science Act il governo ha stanziato 50 miliardi di dollari per finanziamenti diretti, prestiti federali e garanzie sui prestiti proprio con l’obiettivo di espandere la ricerca e la produzione locale di semiconduttori e ridurre la dipendenza del settore dall’estero. Nell’Unione Europea si assiste a qualcosa di simile: i Paesi membri hanno concordato di fornire 47 miliardi di dollari in finanziamenti pubblici volti a raddoppiare la quota dell’Unione Europea della produzione globale di chip, per portarla al 20% entro il 2030. Meno corposi sono gli aiuti previsti dal Giappone. Il Paese, che detiene una quota del 10% del mercato globale dei semiconduttori, dopo aver toccato una percentuale del 50% circa negli anni Ottanta, stanzia 6,8 miliardi di dollari per espandere la produzione nazionale.
Non è facile, ma ci si deve provare
Le aziende di semiconduttori non sono l’unico comparto che potrebbe trarre vantaggi dagli investimenti cosiddetti greenfield. Creare ex novo ecosistemi simili all’Hsinchu Science Park che il governo di Taiwan creò nel 1980, può innescare lo sviluppo di intere economie regionali, perché i semiconduttori favoriscono la crescita di tanti ambiti a essi collegati, dall’IoT o alla robotica. I dati economici mostrano chiaramente i vantaggi derivanti dallo sviluppo dell’industria dei semiconduttori: oltre a essere il secondo settore più redditizio al mondo, con un notevole impatto sul Pil, rappresenta la seconda maggiore spesa in ricerca e sviluppo, contribuendo così alla creazione di posti di lavoro altamente qualificati. Per un nuovo sviluppo di questa industria servirebbe tra i governi quella che i manager del settore chiamano “collaborazione competitiva”: gli Stati dovrebbero lavorare insieme e stabilire obiettivi comuni. Lo scenario attuale, però, complica le cose: viviamo un tempo incerto, nel quale programmi, obiettivi e piani a lungo termine sono soggetti a cambiamenti. Come si chiedono gli esperti di McKinsey: i diversi soggetti possono realmente collaborare allo sviluppo di un’agenda condivisa? È pensabile una governance che possa risolvere eventuali conflitti e garantire la conformità alle diverse leggi locali? È fattibile proteggere sempre la catena di approvvigionamento? E, ancora, c’è disponibilità di manodopera qualificata? Si tratta di quesiti complicati, ma se governi e imprese si sforzassero di analizzare i diversi punti e di collaborare per trovare delle risposte, allora la costruzione di ecosistemi forti e locali potrebbe offrire benefici alla lunga superiori rispetto all’impegno profuso.
I principali ecosistemi di semiconduttori
Uno dei più importanti ecosistemi di semiconduttori è il Parco scientifico di Hsinchu a Taiwan. In sole tre miglia quadrate, Hsinchu conta più di 150 aziende e fornitori di semiconduttori, più di 600 produttori, tre Università e più di 160mila dipendenti a tempo pieno, altamente qualificati. In Europa il più grande cluster di semiconduttori è la cosiddetta Silicon Saxony, in Germania. Qui sono raggruppati oltre 400 player, Università e centri di ricerca. Negli ultimi vent’anni, la Sassonia ha più che raddoppiato il numero dei dipendenti operanti nel settore dei semiconduttori. Si prevede che entro il 2030 nella regione i lavoratori in questo ambito toccheranno quota 100mila.
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